ALCUNE INFORMAZIONI STORIOGRAFICHE SULLA CITTA’ DI FANUM FORTUNAE
ARTE E CULTURA
Fano città di mare, abitata per secoli da pescatori e marinai, incastonata tra le colline marchigiane ed il mare Adriatico. Fano, fiera della sua lunga storia millenaria, saprà stupirvi con le sue splendide architetture ed opere d’arte romane e medievali. La direzione vi consiglia di visitare il tipico Centro Storico, il porto con le sue casette colorate, il Teatro della Fortuna quale sede di concerti lirici e Opere teatrali di fama internazionale e da non perdere le visite guidate alla Fano romana sotterranea.
Fano città di storia.Fano fu un centro piceno, come testimoniano ritrovamenti sporadici avvenuti in città e gli scavi di Montegiove e Roncosambaccio.
Fu poi un importante centro romano, conosciuto comeFanum Fortunae, nome che rimanda al “Tempio dellaFortuna”, probabilmente eretto a testimonianza dellabattaglia del Metauro: era l’anno 207a.C.e le legioni romanesbaragliarono l’esercito del generalecartaginese Asdrubale, uccidendone il condottiero che, dopo aver varcato leAlpicon glielefanti da guerra, intendeva ricongiungersi al fratelloAnnibale.
La città ebbe un notevole sviluppo durante il dominio romano grazie alla sua posizione strategica sulla via che congiungeva laValle del TevereallaGallia Cisalpina. Nel 49 a.C.Gaio Giulio Cesarela conquistò assieme a Pesaro, dando così inizio allaguerra civilecontro l’antagonistaPompeo.
Solo successivamenteCesare Ottaviano Augustodota l’insediamento di mura di cinta (ancora parzialmente visibili), elevando l’insediamento allo stato dicolonia romanacol nome diColonia Julia Fanestris.
Alcuni secoli dopo, nel 217 d. C.., si svolse nei suoi pressi laBattaglia di Fanoche segnò la fine del tentativo degliAlemannidi raggiungereRoma, sconfitti dall’imperatoreAureliano.
Durante laGuerra goticadel VI secolo, a causa alla sua posizione nei collegamenti tra nord e sud Italia, venne assediata e devastata dagliOstrogotidiVitige(538) e poco tempo dopo ricostruita dall’esercito bizantino di BelisarioeNarsete.
Successivamente entrò a far parte della Pentapoli ,marittima(Rimini, Pesaro, Fano, Senigallia, Ancona) di cui era a capo. Subì successivamente l’occupazione dei longobardie dei franchi, fino a quando Ottone IIInon la donò a papa Silvestro II. Nel XIII secoloFano si costituì comune; nel secolo successivo fu per un breve periodo sotto il dominio estense, dopo di che fu dilaniata dalla lotta intestina tra due famiglie: i del Cassero e i da Carignano.
Alla fine del XII secolola città passò sotto il dominio Malatestadi Rimini, grazie ad un complotto ordito da questi ultimi contro le due famiglie rivali. La famiglia Malatesta rimase al potere nella città fino al 1463, quando Sigismondo Malatestadovette lasciare Fano al duca di Urbino Federico da Montefeltrodopo un lungo assedio, nel corso del quale fu danneggiato l’Arco di Augusto, simbolo della città. La popolazione si rifiutò di entrare a far parte del Ducato di Urbinoe perciò divenne vicariato ecclesiastico.
Durante l’occupazione napoleonicadello Stato Pontificiofu saccheggiata e gravemente bombardata dall’esercito del Bonaparte.
Partecipò attivamente ai moti risorgimentalicon la creazione di governi provvisori.
Durante la prima guerra mondiale(1915-1918) subì numerosi bombardamenti navali austriaci ed anche nella seconda guerra modiale(1940-1945) trovandosi sulla linea gotica subì numerose incursioni aeree alleate miranti alla distruzione dei suoi ponti ferroviari e stradali e, da parte dell’ esercito tedescoin ritirata, la distruzione di quasi tutti i suoi campanili (tranne quelli di S. Francesco di Paola e di San Marco), della torre civica, del maschiodella rocca malatestiana e del suo porto peschereccio, ritenuti dal nemico infrastrutture sensibilida non lasciare nelle mani degli alleati.
FANO NELLA LETTERATURA
Fano è ben presente, sin da antiche origini, nella letteratura, in particolar modo ne ritroviamo testimonianze nel De Bello Civili di Caio Giulio Cesare e in Dante che nel canto XXVIII dell’Inferno ne fa una lunga citazione.
« E fa sapere a’ due miglior da Fano,
a messer Guido e anco ad Angiolello, che, se l’antiveder qui non è vano,
gittati saran fuor di lor vasello e mazzerati presso a la Cattolica per tradimento d’un tiranno fello.
Tra l’isola di Cipri e di Maiolica non vide mai sì gran fallo Nettuno, non da pirate, non da gente argolica. »
Fu costruita nel 1227, ai tempi in cui Fano fu ampliata, e sostenne vari interventi di ristrutturazione: in seguito all’assalto delle truppe capitanate dal duca Federico da Montefeltro nel 1463, nella seconda metà del XV secolo la Porta venne completamente ricostruita dietro il disegno dell’architetto Matteo Nuti.
Ad oggi,in seguito ai provvedimenti del primo novecento, l’imponente ingresso si presenta con due accessi (carraio e pedonale), i tagli per i bolzoni e la merlatura. La parte interna è a cielo aperto ma si osservano alcune tracce di una camera di manovra sovrastante e nei lati verso la muraglia le cannoniere per il fiancheggiamento. In epoca fascista fu tagliato permettendo un monumentale ingresso alla città di Fano.
IL BASTIONE DEL NUTI
(così chiamato dato il nome del suo architetto), basso, con una forte scarpata e un terrapieno nella parte interna, costituiva il nucleo difensivo che appaiava la Porta.
Nell’angolo occidentale si raccordava con le antiche mura un torrione poligonale di consolidamento.
Lo spazio all’interno in quest’opera venne adibito sin dai primi anni trenta del Novecento a giardini comunali.
LA ROCCA MALATESTIANA
Situata all’estremità nord-orientale dell’antica cinta muraria, aveva al suo vertice angolare un’imponente torre di vedetta, il Mastio, vittima della barbarie degli uomini in guerra (1944).
Alle massicce fondamenta della superstite base scarpata si riallaccia oggi quanto resta dell’antico camminamento merlato che corrisponde verso l’interno all’area occupata dalla cosiddetta Rocchetta.
Certamente, questa, è la parte più antica del fortilizio, sorta sui resti di opere di difesa romane e medioevali e risalente all’intervento edificatorio iniziato per ordine di Sigismondo Malatesta in concomitanza con il sopralluogo di Filippo Brunelleschi alle fortificazioni dello stato malatestiano: sopralluogo effettuato tra l’agosto e l’ottobre del 1438. I documenti noti testimoniano comunque che ad occuparsi dei lavori fu l’architetto Matteo Nuti con il fratello Giovanni e con Cristoforo Foschi e che detti lavori si conclusero nel 1452 con l’erezione del ricordato Mastio.
La costruzione subì poi, in relazione al mutare delle esigenze difensive, adattamenti e modificazioni, mantenendo peraltro nel suo complesso la fisionomia originaria di ampio quadrilatero fortificato, delimitato da cortine scarpate e robusti torrioni angolari.
Un doppio ponte levatoio munito di rivellino permetteva di superare il fossato e di accedere al vasto cortile, delimitato dai muri di sostegno dei camminamenti e dal basso fabbricato che sul lato orientale ospitava le celle e la piccola cappella.
Più tardi venne sopraelevato e coperto a tetto, attualmente utilizzato per mostre ed esposizioni varie.
BIBLIOTECA FEDERICIANA
È così chiamata in onore del suo fondatore, Domenico Federici (1633 – 1720), che dopo una vita da diplomatico impegnato al servizio della corte di Vienna, di Panegirista, poeta e bibliofilo, la realizzò preso la sede della congregazione dei Filippini. Egli entrò a far parte della congregazione nel 1681, lasciò tutta la sua raccolta libraria con l’obbligo, dopo la sua morte, di tenerla aperta al pubblico almeno un’ora al giorno.
L’edificio, dunque, è stato in passato la residenza dei suddetti Filippini, allontanati subito dopo l’unificazione d’Italia, quando la biblioteca fu ceduta al Comune, il quale proseguì il lavoro precedente e ne fece una delle biblioteche più importanti della regione.
Risalendo l’accurata scala ottocentesca, si raggiunge l’originaria Sala del Globi, ristrutturata dal Federici nel 1678-80 e così chiamata per la presenza del globo “terrestre” e di quello “celeste”, realizzati nel 1688 dal cosmografo veneziano P.Vincenzo Coronelli. Delle magnifiche mensole in noce sono addossate alle pareti, adeguatamente eseguite dal rinomato intagliatore bolognese Francesco Grimaldi: tali scaffalature custodiscono ancora oggi i volumi appartenuti all’abate Federici, tutti quanti con preziose legature alla francese.
MUSEO CIVICO
La sezione archeologica è custodita nel sottoportico e in alcuni ambienti del palazzo Malatestiano, al piano terra. Risalendo poi la rampa che conduce allo scalone, si giunge agli ambienti del mezzanino, sulle cui pareti ci sono importanti dipinti moderni (secoli XIX e XX). Nel punto centrale della scala domina il bel portale a paraste scanalate che fu della chiesetta di S. Maria dei Piattelletti, demolita nel 1480. Sulla destra c’è l’acceso ad un locale al cui centro ha un originale bronzeo della statua della Fortuna prodotta dall’urbinate Donnini Amrbrosi nel 1593 per la fontana della piazza.
Dodici interessanti quadretti ad olio sono appesi alle pareti assieme ad una armoniosa serie di incisioni che documentano l’attività del grande scenografo e scenotecnico fanese Giacomo Torelli (1604 – 1678).
Alle pareti sono anche molteplici monetieri in cui figura esposta la parte più significativa della collezione numismatica di monete romane, medioevali e moderne, comprese quelle della zecca fanese ( secoli XV – XVIII), la raccolta delle meravigliose medaglie malatestiane realizzate da Matteo de Pasti (1446) e quelle di Paolo Sanquirico a ricordo della escavazione del porto Borghese (1613).
PINACOTECA DI SAN DOMENICO
La chiesa monumentale racchiude le spoglie e il mistero della nobile famiglia di Ugolino e Pietro De Pili e la tomba di Jacopo Del Cassero di dantesca memoria.La chiesa di San Domenico è diventata sede della Pinacoteca di Arte Sacra e della Quadreria di proprietà di Fondazione Cassa di Risparmio di Fano che, dopo aver accolto e ospitato queste opere nella propria sede, ha finanziato il recupero della chiesa come sede espositiva. La Pinacoteca accoglie dipinti che vanno dal XIV al XVIII secolo, tra cui la celebre pala d’altare del Guercino raffigurante lo Sposalizio della Vergine, commissionata dalla famiglia Mariotti di Fano nel 1649; tele diSimone Cantarini, tra cui la Madonna della Rosa e Agar e Ismaele; inoltre opere di Sebastiano Ceccarini e Simone De Magistris, di Giovan Francesco Guerrieri (autore della bella Maddalena penitente, firmata e datata 1611, e del Miracolo dei pani e dei pesci, già nella chiesa fanese dei Santi Filippo e Giacomo), di Federico Barocci, Palma il Giovane, Federico Zuccari e altri importanti pittori del XVII secolo.
La Quadreria conserva invece una pregevole collezione di “nature morte”: al 1983 risale infatti l’acquisto, presso una collezione privata, di un’eccezionale serie di cinque ‘nature morte’ di Carlo Magini, occasione che ha suggerito di indirizzare gli acquisti futuri verso la produzione pittorica dei maggiori pittori fanesi e marchigiani del Settecento.
CHIESA DI SAN PIETRO IN VALLE
Fu cominciata nel 1610 da Giovanni Battista Cavagna di Napoli e fu inaugurata nel 1616, è oggi uno dei fabbricati barocchi più belli della nostra regione.
La Chiesa di San Pietro in Valle è ubicata lungo via Nolfi, sfoggia una facciata estremamente semplice costruita in laterizi. La parte interna è ad un’unica navata con cappelle laterali e cupola, si contraddistingue per una ricca decorazione plastica e pittorica: Venne effettuata la decorazione a stucco da Pietro Solari nel 1619, e nel 1618 – 1620 vennero realizzati gli affreschi dall’urbinate Antonio Viviani. La splendida e sfarzosa cupola fu decorata negli anni 1699 – 1700, ed è opera del bolognese Lauro Buonaguardia. Una copiosa collezione di tele, oggi custodite presso la Pinacoteca Civica, abbelliva l’intero complesso: sono dipinti di Antonio Viviani, Guido Reni, Giovan Giacomo Pandolfi, Alessandro Vitali, Simone Cantarini, Luigi Garzi, Lorenzo Garbieri, Matteo Lover, Sebastiano Ceccarini, Carlo Magini e Giovanni Francesco Guerrieri.
PALAZZO MONTEVECCHIO
È il più importante tra i palazzi patrizi fanesi per superfici e solennità, fu appartenuto, fino alla prima metà del nostro secolo alla famiglia dei conti di Montevecchio, i quali ne avevano curato la costruzione fin dal 1740. Rimase incompiuto lungo il fianco a est, oggi è stato reintegrato, e il suo disegno è stato attribuito a Luigi Vanvitelli. In fase di fabbricazione è documentata la partecipazione del felsineo Alfonso Torreggiani (soprattutto la soluzione della parte centrale della facciata con il grande portale barocco in pietra, affiancato da robuste colonne tuscaniche che reggono la balaustra arcuata del balcone a cui si congiunge il motivo ascendente) e del marchigiano Arcangelo Vici. È ragguardevole il grande atrio a colonne, aperto sul vasto sfondo della fontana parietale con statua di Nettuno. Straordinario è il grande scalone a larghi gradini, tutto scorci e prospettive, nicchie, colonne e pilastri nella prima parte; aperto e disteso nel luminoso vano a volta della seconda parte, abbellita dalla schiera ascendente delle otto statue marmoree che riposano e decorano l’elegante balaustra a pilastrini.
in passato vi era un grande salone con balconata perimetrale, vi si accoglievano gli ospiti come in un anticamera alle varie sale e salotti del piano nobile. Oggi è del tutto irriconoscibile, considerato il fatto che è stato suddiviso in diverse stanze per albergare l’Ufficio Distrettuale delle Imposte. Non sono in grandi condizioni nemmeno le altre stanze affacciate verso il giardinetto di Piazzale Leopardi. È invece più adeguatamente salvaguardato l’appartamento del lato ovest, il quale presenta ancora alcune sale con volte dipinte a grottesche.
CAPPELLA NOLFI
La sontuosa e magnifica Cappella Nolfi fu così battezzata dai patrizi fanesi Guido e Cesare Nolfi, che, dopo il 1604, agirono per modificarla con il contributo di vari artisti, compreso l’architetto Girolamo Rainaldi, il quale disegnò il pregiato finimento plastico della volta e delle pareti laterali (realizzate da Pietro Solari) nei cui riquadri, Domenico Zampieri (il Domenichino) affrescò tra il 1618 e 1619 i sedici magnifici episodi della vita della Vergine. Andrea Lilli, Anconetano, è l’artefice della vasta tela raffigurante il paradiso e l’Assunta (1606) posta sulla parete dell’altare, mentre Francesco Caporale scolpì i busti dei due Nolfi sistemati (dopo il 1612) sui rispettivi monumenti funebri. Di grande rilievo è l’opera pittorica con la Vergine in Gloria e i Santi vescovi comprotettori Orso ed Eusebio di Ludovico Carracci (1613), in corrispondenza dell’altare della cappella a destra del presbiterio e affiancata dalle immagini di S.Antonio Abate e San Francesco del fanese Bartolomeo Giangiolini, allievo del Carracci.
TOMBA DEI MALATESTA
Nel seicento furono traslocate dall’interno della chiesa di San Francesco, favorita dai Malatesta per ospitare le proprie sepolture, le Tombe oggi si stanziano nel sottoportico della chiesa stessa.
Una me ravigliosa opera di scultura tardogotica dello scultore veneziano Filippo di Domenico, è la colossale Tomba di Paola Bianca, prima moglie di Pandolfo III Malatesta, ubicata a sinistra del Portale. Un traboccante apparato scultoreo fa da corona alla splendida immagine della defunta, protesa sul coperchio del sarcofago.
Sigismondo Pandolfo nel 1460 fece erigere, sullo schizzo attribuito a Leon Battista Alberti, la tomba rinascimentale designata ad ospitare i resti del padre Pandolfo III. Collocata a destra del Portale, su di un prominente basamento di pietra arenaria, l’arca di granito rosa e nero ha restituito nel 1995 il corpo mummificato di Pandolfo.
Sul lato minore della Loggia, sorretto da tre ripiani, c’è il più modesto sarcofago di Bonetto da Castelfranco, medico fidato di Sigismondo (datata prima metà del XV secolo).
LA FONTANA DELLA FORTUNA
Il trecentesco Palazzo del Podestà (ora Teatro della Fortuna) si affaccia sulla piazza XX settembre, antica platea magna del basso medioevo, che da sempre ha destinato il suo spazio alle cerimonie civili ed al mercato: ne sono testimonianza i numerosi esercizi commerciali che sostituiscono le antiche botteghe dei merciai.
Sul lato a ovest è collocata la Fontana della Fortuna dal vasto caratteristico bacino mistilineo a marmi colorati. Fu interamente rinnovata nel 1697-1699 dal veneziano Ludovico Torresini. L’elegante statuetta bronzea della Dea Fortuna è una copia fedele dell’originale (oggi presso il museo civico) modellata e fusa nel 1593 dall’urbinate Donnino Ambrosi per ingentilire il primitivo bacino ottagonale della vecchia fontana realizzata nel 1576. È considerata simbolo civico e rievoca, nella sua manieristica raffinatezza, modelli scultorei giambologneschi.
PINACOTECA CIVICA
Fu predisposta nel 1898 nel Palazzo malatestiano, e conserva molteplici dipinti datati dal XIV al XX secolo. Nella “Sala del Caminetto” si apprezzano dipinti dal XIV al XV secolo, tra cui il celebre Polittico con “Madonna e Santi” (Michele Giambono) e la tela “Madonna e Bambino in trono e Santi” (Giovanni Santi).
Nella “Sala Grande” sono esibiti i dipinti realizzati nel XVI e XVII secolo, pervenuti, per lo più, da edifici religiosi. Tra i vari emergono “L’Angelo Custode di Guercino, “San Nicola di Bari in Gloria” di Mattia Preti e i pregevoli dipinti provenienti dalla Chiesa Barocca di San Pietro in Valle: tra cui la sublime “Annunciazione” di Guido Reni, “San Pietro che resuscita Tabita” di Matteo Loves e “San Pietro che guarisce lo storpio” di Simone Cantarini.
La “Sala Morganti” ospita dipinti del XVIII secolo, tra cui quelli dello stimato pittore fanese Sebastiano Ceccarini. Nell’ultima sala, invece, è conservata una rara collezione di ceramiche fabbricate tra il XV e il XIX secolo.
PALAZZO MALATESTIANO
Obliquamente al colossale Arco Borgia – Cybo, dal Palazzo del Podestà si passa all’androne che conduce alla Corte Malatestiana.
La porzione più originaria della residenza, quella sul lato sud – occidentale, fu costruita dopo il 1357 quando Galeotto Malatesta divenne Signore di Fano. Su questo versante si trovano oggi gli uffici della Casa di Risparmio di Fano.
Il reale Palazzo Malatestiano fu fatto costruire da Pandolfo III Malatesta tra il 1413 e il 1421. Fu riccamente restaurato nel 1929, ancora oggi conserva le bellissime bifore gotiche in cotto lavorato, presenti sia sul fronte che si espone sulla Corte che su quello retrostante. Lo scalone e la Loggia furono ricostruiti del 1544.
Oggi, negli ambienti interni trovano sede la Pinacoteca e il Museo civico.
LA TRADIZIONE VONGOLARA
Storia e tradizione
Nel passato la pesca delle vongole veniva effettuata sempre usando l’imbarcazione detta vongolara (in dialetto fanese “purasara”, italianizzato in porazzara), ma con un attrezzo e un metodo diverso da quello attuale; una descrizione di questo tipo di pesca si può leggere in uno scritto del 1911.
” Le porazze, dette còncole o còcciole in una parte del litorale del medio adriatico, sono comuni nei fondi della marina fanese, e se ne fa una pesca abbastanza abbondante, perché, oltre la ricerca presso la riva, è in uso a Fano un modo speciale di pesca, che si esercita alla profondità di circa 10-12 metri, con apposito istrumento e coll’ausilio di barche.
L’arnese che serve alla pesca delle porazze, denominato in dialetto porazzara, pure riavvicinandosi al ferro dei calcinelli, per la funzione che deve compiere, cioè di agire come un enorme cucchiaio, per raccogliere l’arena sul fondo marino, se ne differenzia però nella sua conformazione e nelle dimensioni.
La superficie complessiva del fondo dell’istrumento è di circa 2 metri quadrati, od il peso totale, senza l’antenna, che ha lunghezze variabili da 10 a 14 metri, è di circa 4-5 quintali.funi del ferro dei calcinelli.
La pesca delle Vongole ha luogo da novembre a maggio, e la barca porta fino a 6 uomini di equipaggio, il che è richiesto dalle manovre del martinetto e dei paranchi.
Se le condizioni sono favorevoli, si possono prendere fino a 5 quintali al giorno di porazze.
La pesca nel mare fanese è, in genere, abbastanza abbondante, ma il prezzo esiguo che se ne ricava, riduce il guadagno di coloro che vi si dedicano alla media di quelli che derivano dall’esercizio degli altri sistemi di pesca; tanto più che, insieme alle porazze, vengono spesso presi anche garagoli e grancelle, di cui i primi hanno un valore assai basso e le seconde non ne hanno alcuno, poichè, in genere, vengono dai pescatori rigettate in mare.
IL PORTO DI FANO
La Storia
I documenti più antichi sul porto di Fano risalgono al 1348: nell’Archivio Storico del Comune di Fan, si riportano pagamenti effettuati ai “maestri del porto”.
Durante il XV e XVI secolo si ha traccia di diversi progetti e opere relativi al porto. All’inizio del XVII secolo tuttavia il porto risultava in condizioni fatiscenti, e anche se ripristinato sarebbe stato inadeguato alle necessità del commercio marittimo dell’epoca; l’impiego di navi a vela di più grande stazza si era ormai affermato. Attraverso la via Flaminia giungevano a Fano molte merci cerealicole dall’entroterra, ma transitavano soltanto per poi essere imbarcate presso altri porti delle Marche. A Fano perciò si cominciò a fare pressione sul governo pontificio per la ricostruzione delle strutture portuali, che avrebbero potuto portare ricchezza alla città. Il principale problema che aveva sempre afflitto il porto era l’accumulo di depositi sabbiosi e ghiaiosi che col tempo lo riempiva e rendeva inadatto il fondale. Quando, nei primi anni 1610, venne costruito il canale che convogliava a Fano l’acqua del Metauro per i mulini (divenuto in seguito il canale Albani), si ritenne che la corrente del canale attraversando il porto avrebbe potuto spingere fuori i detriti e tenere pulito il fondale. Così nel 1613 Papa Paolo V (Camillo Borghese) diede finalmente l’autorizzazione a grandi lavori di ricostruzione, che terminarono all’incirca nel 1618 e costarono 72.000 ducati, cifra molto elevata per la Fano dell’epoca. La nuova darsena prese dal Papa il nome di Portus Burghesius (Porto Borghese); progetto dell’architetto Girolamo Rainaldi, era ottagonale, sormontata da una loggia per la dogana ancora oggi esistente, e collegata al mare da un canale. I benefici non furono però all’altezza delle aspettative; il problema dell’insabbiamento non venne risolto dalla corrente del canale, nemmeno successivamente, quando nel 1692 si scavò un secondo canale proveniente dal torrente Arzilla più a nord (che ebbe vita breve), e nel 1723 il Cardinale Fulvio Astalli fece realizzare il salto della Liscia che avrebbe dovuto aumentare la forza pulitrice delle acque. Dopo altri interventi di varia natura, nel 1753 l’architetto di fama Carlo Murena presentò alla Congregazione del buon governo l’idea che si sarebbe poi rivelata giusta: costruire un molo guardiano a est del canale, da prolungarsi periodicamente, per fare da barriera ai detriti provenienti dalla foce del Metauro. Opere di prolungamento dei moli verso mare continuarono infatti ad essere realizzate nel XVIII e XIX secolo. Nel 1862 venne costruito il ponte ferroviario, non senza controversie, dato che precludeva alle navi alberate l’ingresso al tratto più interno del porto. Nel 1865 l’amministrazione del porto passò al Comune, che continuò le opere di prolungamento delle due palizzate all’imboccatura, sempre secondo i principi del Murena, fino ad arrivare ai grandi ampliamenti del XX e XXI secolo descritti al capitolo precedente.
PALAZZO BRACCI PAGANI
E’ un edificio del ‘700-‘800, da poco restaurato dalla Fondazione della Cassa di Risparmio di Fano per realizzare un polo museale organizzato su quattro piani che sarà inaugurato ed aperto al pubblico per la prima volta in occasione delle Giornate FAI di Primavera 2016.
All’interno si trovano una ricca raccolta di oggetti d’avorio antichi, una raccolta di reperti archeologici e monete antiche coniate a Fano dal ‘300 all’800.
Tutte le strutture, lo ricordiamo, sono visitabili gratuitamente.Il Museo di Scienze Naturali, oltre agli orari sopra indicati, è visitabile anche su prenotazione – per scuole, gruppi turistici, ecc. – contattando il numero 327 8397355.
Ecco a voi una piccola anteprima delle meravigliose opere che offre il museo;
NEI DINTORNI DI FANO*
* Le mete indicate di seguito sono tutte facilmente raggiungibili e a pochi minuti di macchina dalla nostra Casa
IL PARCO DEL SAN BARTOLO
Il Parco San Bartolo si caratterizza principalmente per il tratto di costa alta, in gran parte rappresentata da falesia viva, rara in tutto l’Adriatico. Il resto del territorio protetto è costituto dal paesaggio rurale che, fino agli anni ’50, era attivamente coltivato anche in luoghi oggi impensabili, ai limiti del mare. Il Colle San Bartolo presenta dunque due ambienti distinti: la falesia a mare e il versante interno.
La falesia emerge dalle basse acque marine e e da strette spiagge ciottolose come un susseguirsi ondulato di speroni e valli, intervallate da pareti a strapiombo. Le sommità del rilievo, che sfiorano i 200 metri, permettono un’ampia visione sulla costa e sull’Adriatico, e costituiscono un paesaggio inusuale rispetto alle coste sabbiose tipiche della Romagna e Marche settentrionali. Alla base del colle corre una sottile spiaggia di ghiaia e di ciottoli formata dalla demolizione e dal franamento delle pareti sovrastanti.
Il paesaggio rurale che si scorge nel tratto che degrada dolcemente verso la Statale Adriatica, trasmette un senso di armonia, una sorta di intreccio vitale e gradevole trai coltivi, i campi abbandonati rinaturalizzati e i filari di alberi e siepi.
URBINO
A breve distanza dalla Casa religiosa di Ospitalità sorge Urbino, una delle capitali del Rinascimento mondiale
Circondata da una lunga cinta muraria in cotto e adornata da edifici in pietra arenaria, grazie al lavoro di importanti artisti Urbino da semplice borgo divenne “culla del Rinascimento” e, ancora oggi, passeggiando per il suo centro storico se ne respira l’aria quattrocentesca.
Le origini di Urbino sono antichissime, il nome romano Urvinum deriverebbe dal termine latino urvus (urvum è il manico ricurvo dell’aratro), ma è nel Quattrocento che la città vive il suo massimo splendore.
Ed é soprattutto grazie all’apporto di Federico di Montefeltro che Urbino acquisì quell’eccellenza monumentale e artistica, la cui influenza si è largamente estesa al resto d’Europa. Passeggiando lungo le ripide e strette strade si incontrano tutti gli edifici della Urbino rinascimentale: l’ex Monastero di Santa Chiara, la Chiesa di San Domenico, il Mausoleo dei Duchi nella Chiesa di San Bernardino, palazzo Boghi e il maestoso Palazzo Ducale, custode del tesoro urbinate. Sia Bramante sia Raffaello mossero i primi passi proprio qui ad Urbino. Raffaello in particolare si formò nella bottega paterna ed esordì con opere commissionategli dalle vicine località del ducato. A Urbino si svolge ogni anno la Festa dell’aquilone che generalmente si tiene a settembre. Si tratta di una vera e propria gara in cui vince chi riesce a far volare il proprio aquilone più in alto. Nei piccoli laboratori si crea arte fin dal ‘500: orafi, ebanisti, ceramisti, molti gli artigiani legati all’edilizia (stuccatori, pittori, falegnami, scalpellini); nelle botteghe del centro storico è possibile guardare da vicino tecniche antiche e nuove creazioni. La corte di Federico da Montefeltro, così come descritta da Baldassarre Castiglione ne Il Cortegiano, introdusse i caratteri del cosiddetto “gentiluomo” in Europa, che rimasero pienamente in voga fino al XX secolo. Sede di una delle più antiche università, la Carlo Bo, che nasce nel 1506, conta più universitari che residenti autoctoni, vanta una famosa Accademia di Belle Arti, ed è anche nota come la “capitale del libro” per via dell’Istituto per la Decorazione e l’Illustrazione del Libro nato nella seconda metà del XX se
SAN COSTANZO
COSA VISITARE A SAN COSTANZO
San Costanzo è situato sulle colline che separano la Valle del Metauro e la Valle del Cesano, di notevole interesse nella Piazza Perticari troviamo:
Il Teatro della Concordia di San Costanzo è ubicato all’interno dell’antico torrione scarpato,eretto a protezione del vertice sud-orientale del palazzo roveresco di cui fa parte.
Non sono noti nè il costruttore nè la data di realizzazione del teatro; è comunque documentata l’attività già nella seconda metà del XVIII secolo.
L’attuale teatro, costituito di due ordini di palchi e di un loggione sovrastante, presenta una forma a ferro di cavallo ed è il risultato di due ristrutturazioni eseguite nel 1935 e nel 1987.
Un’alta Torre campanaria svetta sulla piazza del borgo, addossata alle mura del castello entro la cui cinta sorge la parrocchiale dei Santi Cristoforo e Costanzo, ricavata nel sec. XVI all’interno di un preesistente salone malatestiano e rinnovata nel sec. XVIII.
Dal lato opposto della piazza è il Palazzo Comunale (già dimora dei conti Cassi, dove il 26 giugno 1822 morì Giulio Perticari, genero di Vincenzo Monti): palazzo che ospita oggi in alcuni ambienti la Quadreria Comunale con pregevoli opere del pesarese Terenzio Terenzi detto il Rondolino e del senigalliese Giovanni Anastasi.
Nel borgo è la chiesa di S.Pietro (detta anche di S.Agostino) con portale datato 1617 e, all’interno, un organo settecentesco del celebre Gaetano Callido.
L’Amministrazione comunale di San Costanzo ha inserito in una esposizione permanente, nei locali di Palazzo Cassi, una serie di tempere e di grafiche donate da Natale Roberto Patrizi (Agrà). Le opere dell’artista figurano in numerose collezioni pubbliche e private, in musei e gallerie, in Italia e all’estero.
La specializzazione in pittura murale permette di vedere le sue opere sulle pareti di chiese e di palazzi pubblici, su muri en plei air e perfino su vecchi infissi recuperati da case coloniche in rovina, le caratteristiche “Finestre”.
Cosa vedere nei dintorni del borgo di San Costanzo
A 5 km da San Costanzo si trova Cerasa, cinta ancora di mura, conserva il suo aspetto medievale.
Anticamente portava il nome di castello di Querciafissa e sorgeva poco lontano dall’attuale ubicazione di Monte della Ceregia da cui prende il nome oggi (“Ciregia” nelle vecchie carte).
Nel 1283 faceva parte dei “castelli al di là del Metauro” soggetti alla città di Fano.
Ancora visibili le due torri e la porta d’ingresso con la rampa, mentre all’interno del “castello” si può visitare la Chiesa di San Lorenzo Martire, con la sua fonte battesimale del 1629 e un organo Callido. Sono inoltre degni di nota il portale di Casa Giraldi, in cotto e arenaria, e una casa del 1735.
Tra San Costanzo e Cerasa si trova la Grotta di San Paterniano in un podere di proprietà privata a fianco della strada che da Caminate porta a S. Angelo in Ferriano. Il nome le deriva dal fatto che nel momento in cui venne casualmente scoperta vi fu trovata un’iscrizione frantumata e lacunosa nella quale si poteva leggere il nome di Paterniano e di alcuni suoi compagni già nominati nel Codice Nonantolano dell’Archivio Capitolare di Fano. Ma era già tradizione che San Paterniano si fosse rifugiato nella selva di Sant’Angelo durante la persecuzione di Diocleziano e Massimiano (303 d.C.). Erroneamente si parla di “catacomba”, in realtà si tratta di un manufatto con struttura muraria in pietra intonacata appartenente ad un villa rustica romana
Enogastronomia: sulla strada che unisce San Costanzo e Cerasa è possibile visitare, tutti i giorni escluse le domeniche, 2 aziende agricole (Bruscia e Guerrieri) e acquistare prodotti locali come vini biologici, spumanti, grappe, olio extravergine di oliva, pasta agricola (di grano duro, farro e grani antichi), lenticchie, ceci, miele e marmellate.
SANT’ANDREA DI SUASA
Parco archeologico di Suasa e Domus romana. La costruzione del Parco Archeologico Regionale della Città Romana di Suasa, con l’apertura al pubblico degli scavi e dei due musei dedicati alla città e al territorio di Suasa, rispettivamente a Castelleone di Suasa e a San Lorenzo in Campo, unitamente ai lavori nell’antico Anfiteatro romano, hanno creato le condizioni per dare origine ad un polo museale di grande rilievo regionale. Nel parco si può visitare un’ abitazione romana, la domus patrizia dei Coiedii, musealizzata all’aperto, di grande interesse per la vastità e la complessità architettonica. La domus fu abitata a lungo, raggiungendo il massimo splendore nel II sec. d.C. Splendidi i mosaici rinvenuti al suo interno, che costituiscono il complesso unitario più importante delle Marche. Si possono ammirare scene mitologiche, floreali e geometriche, ma soprattutto un magnifico pavimento marmoreo realizzato con oltre 15 tipi diversi di pietra colorata. Una copertura d’avanguardia e passerelle sopraelevate consentono il percorso di visita.
MONDOLFO
Veduta aerea del Castello di Mondolfo
Racchiuso da una duplice cortina muraria, quasi un unicum nelle Marche dove per lo più semplici cinte circondano gli abitati, il Castello di Mondolfo si presenta nella conformazione che volle dargli il genio dell’architetto senese Francesco di Giorgio Martini (1439-1501), e cioè come una poderosa macchina da guerra in grado di essere difesa da un manipolo di uomini. Non per nulla Francesco Guicciardini nella Storia d’Italia (1537-1540) lo definiva come il «castello più forte e migliore del Vicariato, situato in una collina, in luogo eminente, cinto da fossi e da muraglie da non disprezzare, alla quale il sito del luogo fa da terrapieno».
Prima cerchia di mura a Largo Neviera
L’origine della fortificazione che vi trovò il Martini risaliva al periodo bizantino, un castrum la cui esistenza è manifestata dalla prima cerchia muraria, di forma ovale, con un perimetro attuale di quattrocentoventi metri circa e una superficie interna di un ettaro. Questa presenta un’urbanistica piuttosto regolare con due strade incrociantisi ad angolo retto (cardo e decumano perfettamente orientati) al centro del recinto e che oggi ritroviamo pure nella toponomastica con il Vicolo del Decumano. Al suo interno si trovavano in origine solo quattro caseggiati e le dimensioni complessive dovevano essere di centoventi per novanta metri (oggi in realtà risultano di centoventi percento metri, poiché è riscontrabile sul tratto ovest una lieve “pancia” che porta i caseggiati da quattro a cinque). Lavorando su una precedente fortificazione, Martini connotò con la caratteristica e simbolica forma “a mandorla” il perimetro murato della seconda cerchia – in ampia parte percorribile lungo i camminamenti di ronda – scarpando le muraglie, rifinite di redondone, e creando i presupposti per i tiro di fiancheggiamento. La Strata Magna o Via Grande (via XX Settembre – via Garibaldi) interamente percorribile, congiunge il varco di Porta S. Maria con la piazza del Castello, mentre un percorso in falsopiano – oggi corso della Libertà – favorisce il transito dei carri per vettovagliamento e munizioni unendo il varco di Porta Fano con la piazza centrale dell’abitato, dove sorge il Palazzo Comunale con la Torre civica.
Postazione di artiglieria lungo le mura castellane
Il complesso sistema fortificatorio – la seconda cerchia con i tratti della prima (non ampliata a nord e a ovest), racchiude oggi un quadrilatero irregolare appunto a forma di “mandorla” con uno sviluppo lineare di settecentoquattordici metri circa e una superficie interna di tre ettari – evidenzia dunque gli adattamenti del Castello alle mutate esigenze dell’arte bellica nell’ultimo decennio del Quattrocento con gli elementi della cosiddetta “architettura militare di transizione” di cui Francesco Martini fu tra i massimi esponenti. Se Porta Nuova, uno dei tre accessi al Castello, è già attestata nel Ciquecento, solo nel 1531 iniziarono invece i lavori di costruzione del Bastione di S.Anna, dopo le distruzioni subite dal Castello con l’assedio di Lorenzino de’Medici nel 1517, ispirandosi appunto alle idee fortificatorie del senese, che volle per Mondolfo una perfetta e temibile macchina da guerra dotata dei migliori sistemi di difesa di quel periodo a cavallo fra Umanesimo e Rinascimento.
Per info visita: www.castellodimondolfo.it
RISERVA NATURALE STATALE DEL FURLO
La Gola del Furlo è una alternativa alla giornata di mare. Eccola, a soli 50 km dal Fanoi immersa nel verde dell’Appennino Marchigiano tra forre e canyon, in un susseguirsi di rocce intagliate dalle forze dell’erosione. Chiusa da pareti che raggiungono i 300 metri di altezza e attraversata dal III secolo avanti Cristo dalla Via Flaminia che univa Roma a Fano sulle rive dell’adriatico.
Particolare rilevanza assume la riserva Naturale inserita nella gola del Furlo, per essere punto di nidificazione delle aquile.
LE GROTTE DI FRASASSI
A pochi chilometri da Fano sono situate Le Grotte di Frasassi che rappresentano uno dei percorsi sotterranei più belli e importanti al mondo, con 30 Km di intrecci di cunicoli e caverne su 8 differenti livelli geologici. Caratterizzate da concentrazioni calcaree che nel corso degli anni hanno formato enormi stalattiti e stalagmiti, piccoli laghi e arabeschi intarsiati, le Grotte, situate nel Comune di Genga, in provincia di Ancora, più esattamente nel Parco naturale regionale della Gola della Rossa e di Frasassi, ci regalano uno spettacolo unico in natura, con ambientazioni fiabesche. Sono state scoperte nel 1971, quando un gruppo di speleologi del gruppo CAI di Ancona scoprì la Grotta Grande del Vento, ossia l’ingresso dell’attuale percorso delle Grotte.
MARMITTE DEI GIGANTI
Affacciandosi alla spalletta del ponte di Diocleziano presso S. Lazzaro di Fossombrone è possibile scorgere uno spettacolo naturale affascinante ed unico: quello del canyon scavato nei millenni dal Metauro e delle numerose “Marmitte dei Giganti” sparse sulle rive rocciose.
La profonda forra, quasi un piccolo canyon, presenta ripide pareti verticali per un’altezza massima di m. 30 sopra il livello del fiume e di m. 17,50 sotto. La larghezza massima tra le due sponde è di m. 13,20 quella minima di poco più di un metro. Il canyon si presenta come una spaccatura della crosta terrestre che mette a nudo una storia geologica di ben 140 milioni di anni.
Il fascino della zona è poi accresciuto dalla presenza delle cosiddette “Marmitte dei Giganti”, morfosculture prodotte nei secoli dall’erosione fluviale. In sostanza la corrente fluviale, qui dotata di notevole energia, ha usato i ciottoli che trascinava con sé come grandi scalpelli per modellare le sponde e ricavarvi caratteristiche cavità rotondeggianti di varia grandezza (il diametro varia da m. 3 o 4 a meno di un metro), oggi occupate da piccoli specchi d’acqua in cui si riflettono il cielo azzurro e le ripide pareti del canyon con la loro stentata vegetazione.
GRADARA
Se c’è nelle regioni d’Italia una rocca degna di essere celebrata, nessuna ve n’è che superi le mie doti: se ricerchi la posizione, io sono vicina al mare e domino un libero spazio di terre all’intorno; se l’imponenza, mi levo su un colle superbo, mi si può ammirare anche da luoghi lontani. Maffeo Vegio (1450 ca.)
Il colle di Gradara, da sempre terra di confine tra Marche e Romagna, è dominato dalla maestosa Rocca circondata da un piccolo borgo medievale e da una doppia cinta muraria.
Luogo di piacevoli delizie fin dall’antichità, tanto da derivare il suo nome da “grata aura” (aria buona), Gradara offre al visitatore memorie di secoli di storia in una suggestiva scenografia medievale. Gli elementi vi sono tutti: una collina che domina la valle aperta sull’orizzonte del mare, una fitta boscaglia, un castello turrito e leggendario che risalta con il colore ocra dei mattoni sull’azzurro del cielo e il verde delle campagne intorno.
Il castello ospitò le principali famiglie dell’epoca medievale e rinascimentale: Malatesta, Sforza, Borgia e Della Rovere, e fu teatro di grandi eventi storici e leggendari.
Gradara: Paolo e Francesca
«Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende,
prese costui de la bella persona
che mi fu tolta; e ‘l modo ancor m’offende.
Amor, ch’a nullo amato amar perdona,
mi prese del costui piacer sì forte,
che, come vedi, ancor non m’abbandona.
Amor condusse noi ad una morte.
Caina attende chi a vita ci spense»
(Inferno V, 100-107)
La storia
Francesca da Polenta era figlia di Guido Minore Signore di Ravenna e Cervia “…siede la terra dove nata fui, sulla marina dove ‘l Po discende…..” e lì viveva tranquilla e serena la sua fanciullezza , sperando che il padre le trovasse uno sposo gradevole e gentile.
Siamo nel 1275 e Guido da Polenta decise di dare la mano di sua figlia a Giovanni Malatesta (detto Giangiotto) che lo aveva aiutato a cacciare i Traversari, suoi nemici. Il capostipite, Malatesta da Verucchio detto il Mastin Vecchio o il Centenario, concorda ed il matrimonio è combinato.
Per evitare il possibile rifiuto da parte della giovane Francesca i potenti signori di Rimini e Ravenna tramarono l’inganno.
Mandarono a Ravenna Paolo il Bello “piacevole uomo e costumato molto”, fratello di Giangiotto.
Francesca accettò con gioia ed il giorno delle nozze, senza dubbio alcuno, pronunciò felice il suo “sì” senza sapere che Paolo la sposava “artificiosamente” per procura ossia a nome e per conto del fratello Giangiotto.
Bben presto Francesca si rassegnò, ebbe una figlia che chiamò Concordia, come la suocera, e cercava di allietare come poteva le sue tristi giornate. Paolo, che aveva possedimenti nei pressi di Gradara, sovente faceva visita alla cognata e forse si rammaricava di essersi prestato all’inganno!
Uno dei fratelli, Malatestino dell’Occhio, così chiamato perchè aveva un occhio solo“ma da quell’uno vedeva fin troppo bene”, spiando, s’accorse degli incontri segreti tra Paolo e Francesca. Quest’ultimo che ogni mattina partiva per Pesaro ad espletare la sua carica di Podestà, che per maggior equanimità non doveva avere appresso la famiglia, per far ritorno a tarda sera, finse di partire ma rientrò da un passaggio segreto e …mentre leggevano estasiati la storia di Lancillotto e Ginevra, “come amor li strinse” si diedero un casto bacio proprio in quell’istante Giangiotto aprì la oporta e li sorprese. Accecato dalla gelosia estrasse la spada, Paolo cercò di salvarsi passando dalla botola che sitrovava vicino alla porta ma, si dice, che il vestito gli si impigliasse in un chiodo, dovette tornare indietro e, mentre Giangiotto lo stava per passare a fil di spada, Francesca gli si parò dinnanzi per salvarlo ma…Giangiotto li finì entrambi.
Gli sventurati amanti vengono così immortalati da Dante nella Divina Commedia – V canto dell’Inferno.
Nel corso dei secoli poeti, musicisti, letterati, pittori e scultori si sono ispirati alla tragedia di Paolo e Francesca ed ancor oggi la loro storia d’amore, avvolta in un alone di mistero, affascina migliaia di persone.
MONDAVIO
La Rocca Roveresca
La Rocca Roveresca di Mondavio, edificata fra il 1482 ed il 1492, per volontà di Giovanni Della Rovere, signore di Senigallia, del Vicariato di Mondavio e genero di Federico di Montefeltro, su progetto del celebre architetto senese Francesco Di Giorgio Martini, responsabile e principale artefice del sistema architettonico difensivo del Ducato di Urbino sotto i Montefeltro, è unanimemente ritenuta un capolavoro assoluto dell’architettura militare rinascimentale. Imponente e suggestiva con il suo poderoso mastio poligonale a dieci facce irregolari scarpate, collegato con il torricino di rinfianco e un torrione semiellittico di rinforzo che si innalzano sul profondo fossato, il geniale complesso architettonico della Rocca di Mondavio costituì un’inespugnabile fortezza, arma difensiva per un territorio di confine sul quale la storia ha lasciato segni profondissimi.
CORINALDO
Siete degli inguaribili curiosi?
Allora qui soddisferete il vostro desiderio di conoscere e di vedere. Scoprirete l’antica città di Corinaldo, le sue poderose Mura e le mille altre storie di mattoni e laboriosità, le rinfrescanti e rinvigorenti zone verdi e boscose, il nostro passato archeologico, i nostri uomini e le nostre donne nella storia, gli ormai mitici Matti di Corinaldo e la nostra bambina diventata santa.
Dopo aver letto tutto ciò potreste anche assopirvi e magari sognare di essere a Corinaldo. Bene e ricordate che i sogni a volte vanno realizzati!
Corinaldo è le sue mura. Una intatta e poderosa cinta muraria di quasi 1 km circonda e sostiene il centro storico medievale. E girovagando per i suoi vicoli vi ritroverete in mezzo alle sue più belle piazze su cui si affacciano i principali edifici religiosi, costeggerete le mura e alzerete gli occhi al cielo per vedere gli imponenti torrioni e baluardi su cui è ancora possibile salire, passerete davanti ai palazzi storici e allo storico teatro e scenderete i gradini della meravigliosa Piaggia con il pozzo. Poi non dimenticate di scoprire i tesori dipinti della Pinacoteca e quelli tessuti della Sala del Costume e a soli 4 km dal centro l’imperdibile Antico Molino Patregnani del 1200, reso visitabile e fruibile dal 2013.
SPIRITUALITA’ *
* Le mete indicate di seguito sono tutte facilmente raggiungibili e a pochi minuti di macchina dalla nostra “Casa”
Santuario San Giovanni Bosco – presso la nostra casa
“Santuario Don Bosco” – Nell’anno santo 1934, in cui Papa Pio XI proclamò Santo don Giovanni Bosco, Don Luigi Orione e i Figli della Divina Provvidenza decisero di erigere proprio a Fano un tempio a lui dedicato:
“ E’ un vanto invidiabile -si legge nell’Orfanello del Marzo 1934- cha la piccola e gloriosa Fano preceda le cento città d’Italia, più ricche e popolate, nell’erigere un monumento a S. Giovanni Bosco. La novella chiesa sorgerà proprio accanto all’Orfanotrofio di Mons. Gentili, ove i più poveri figli del popolo trovano, col pane, una formazione religiosa e civile. E ciò è molto significativo perchè Don Bosco amava tanto la gioventù.
Alla posa della prima pietra del “Santuario” intervennero oltre a don Luigi Orione, don Giorgio Serie dei Figli di Don Bosco, don Carlo Sterpi vicario dei Figli della Divina Provvidenza, il vescovo di Fano Mons. Giustino Sanchini.
Villa San Biagio
Villa S.Biagio si trova su una collina lungo l’Adriatica (SS 16), a tre chilometri dal centro di Fano.
Il suo nome deriva dal Santo a cui è stata dedicata la Chiesa, costruita intorno al 1380 da “madonna” Isa. Da un “istrumento”, redatto dal notaio fanese ser Argentino di Vanni Domenico in data 14 ottobre 1399 – e che ora si trova conservato nell’archivio di San Onofrio in Roma – risulta che “madonna” Isa, figlia di Mondolfo di Mondolfo, fece costruire su questo colle, chiamato allora “del bosco” o “della selva” o anche “in Marano”, una chiesa, dedicandola al martire e vescovo San Biagio, per onorare la memoria del defunto marito che ne portava il nome, il medico di Fano Biagio di Pietro. Ella la lasciava – con delle condizioni – all’Ospizio “Casa di Dio” di Fano. Il Direttore di questa casa la affidò ai religiosi di San Francesco. I buoni religiosi vissero come dei veri eremiti. Dopo la morte dell’ultimo francescano, fra Giovanni Rigi da Bologna, in data 17 giugno 1417, la Chiesa e l’eremo annesso furono concessi in proprietà al Beato Pietro da Pisa. Presto egli creò una comunità di religiosi detti “GEROLOMINI” la cui regola si ispirava appunto al Santo dalmata. I solerti religiosi nel 1485 – come risulta dall’iscrizione posta sulla facciata della chiesa – restaurarono la chiesa ed il cenobio. Dopo la battaglia di Lepanto ( 1571 ) fiorì una fervente Confraternita del Santo Rosario, il cui riconoscimento avvenne in data 10 luglio 1610 dal Procuratore e Vicario Generale dei Padri Domenicani.
Gli Orionini
Terminati i lavori di restauro il 14 Ottobre 1923 venne benedetto il nuovo altare da Mons.Zuccherini, coadiuvato da Mons.Del Signore. I frati di San Paterniano assicurarono la loro presenza per le funzioni religiose fino al 1944, allorché subentrarono alcuni Domenicani e dall’Agosto 1946 i Sacerdoti Orionini dell’Istituto Don Gentili. Nel Novembre del 1946 viene aperto il Noviziato per la Provincia Religiosa san Benedetto e un anno dopo vengono ospitati nel Castello degli orfani provenienti da Modena. Le Suore Orionine accudiscono a questo asilo che dipende economicamente dall’Istituto don Gentili. Il 6 Ottobre del 1952 iniziava la vita del seminario orionino con l’arrivo dei primi quattro ragazzi della Sardegna: ad accoglierli il nuovo Direttore Don Dino Dalla Ba, don Sergio Tombari e tre suore, mentre l’asilo si trasferiva a Bellocchi.
Il Sarcofago
All’entrata sinistra è stato posto in Chiesa un sarcofago in travertino del 1400. Le quattro colonne con base e capitelli sono recenti. Il sarcofago racchiude il corpo del Canonico Giovanni Baldini. Da una finestrella, praticata nel fianco vicino alla parete della chiesa, se ne possono vedere ancora oggi i resti mortali. Egli, per non essere molesto ad alcuno, si scelse la propria sepoltura nella selva: morì nel 1486.
Eremo di Monte Giove
“Non si dovrebbe mai aver paura del silenzio” con queste parole Don Maurizio inizia a raccontare la storia dell’Eremo di Monte Giove, situato presso la città di Fano a brevissima distanza dalla nostra struttura.
Si narra che nell’antichità questo posto fosse dedicato, come ricorda il nome, al grande Giove, anche se non si hanno testimonianze certe.
Nell’Eremo di Monte Giove vivono ancora sette monaci, uno di loro è persino centenario! Questi uomini di fede hanno scelto di condurre una vita eremitica, dove il tempo è scandito da lunghi silenzi cadenzati da pasti frugali e preghiere.
La storia di questo eremo inizia nel 1608 grazie ai monaci benedettini camaldolesi di Monte Corona che per primi abitarono questo edificio appositamente pensato per accoglierli e rispettare la loro voglia di solitudine. L’architettura rispecchia la volontà d’isolamento, preghiera e semplicità: ogni monaco ha una sua cella con quattro stanze, un piccolo giardino e una cappellina. L’unico momento comune sono i pasti, dove regna il silenzio e si condividono sguardi.
Una volta entrati in questo luogo la sensazione è dirompente, si rimane sospesi tra la serenità che emanano queste mura e la voglia di comprendere la scelta estrema di questi monaci. Il rumore del silenzio ci accompagna per tutto il percorso, siamo sul viale centrale che corre verso la chiesa.
Questa chiesa originariamente si trovava proprio al centro delle due stradine perpendicolari che definiscono il nucleo della struttura, con la funzione di proteggere e nascondere le celle dei monaci. Dopo qualche decennio questa chiesa fu letteralmente spostata in fondo al viale principale e completamente riedificata nella sua posizione attuale.
La Chiesa si presenta austera racchiusa in mura di pietra, il bello della scoperta deve ancora venire! Realizzata nel 1741 dall’architetto Giovan Francesco Bonamici, questa chiesa ad una navata è tipicamente Settecentesca con decorazioni, affreschi e opere. Tra questi, non possono sfuggire le cappellette decorate da Tarcisio Generali, monaco camaldolese e pittore, che nel freddo inverno del 1952 decise di iniziare l’impresa. Entrando qui dentro ci colpisce la familiarità e il calore di questa chiesa che è aperta alla comunità per le funzioni religiose.
Monastero di Fonte Avellana
ll Monastero di Fonte Avellana è situato alle pendici boscose del monte Catria (1701 m.) a 700 metri sul livello del mare.
Le sue origini si collocano alla fine del X secolo, intorno al 980, quando alcuni eremiti scelsero di costruire le prime celle di un eremo che nel corso dei secoli diventerà l’attuale monastero.
La spiritualità di questi eremiti fu influenzata da San Romualdo di Ravenna, padre della Congregazione benedettina camaldolese. Egli visse e operò fra il X e l’XI secolo in zone vicinissime a Fonte Avellana, quali Sitria, il monte Petrano, e San Vincenzo al Furlo.
Loreto
Loreto è un grazioso comune nato intorno al Santuario che, imponente, delinea il profilo della cittadina già da lontano.
Si dice che debba il suo nome alla fitta vegetazione di lauri che ricopriva il colle su cui sorge. Il Santuario, che rende famoso Loreto in tutto il mondo, custodisce al suo interno la Santa Casa Nazaretana della Madonna.
Santuario della Madonna del Pelingo *
*Questa meta è indicata anche come luogo econaturalistico
La chiesa prende il nome dalla famiglia Pelingo che verso la fine del XIV secolo ne volle l’edificazione. Nata come oratorio sacro al SS. Sacramento e alla Madonna, la chiesa fu dapprima dedicata a S. Maria del Pelingo (per la presenza di un’immagine della Vergine ivi collocata verso il 1440) e successivamente (fine secolo XVI) a S. Michele.
Essendo diminuita col tempo l’attenzione dei fedeli nei confronti dell’immagine della Vergine, l’oratorio fu gradualmente abbandonato e dimenticato. Un grande risveglio di venerazione si ebbe a partire dal 1781 quando, a seguito di un forte terremoto, si decise l’abbattimento dell’edificio che era stato gravemente danneggiato; infatti, tornata alla luce l’immagine originaria della Madonna che era stata ricoperta da un altro dipinto, alla stessa furono attribuite alcune miracolose guarigioni; pertanto fu necessario edificare una cappella per proteggere l’immagine ed ospitare le folle di pellegrini che invocavano la Vergine col nome di Madonna della Misericordia.
L’edificio attuale fu iniziato verso il 1820 e consacrato nel 1859. Il dipinto della Madonna, restaurato nel 1981 e di autore ignoto, è posto sopra l’altare maggiore e protetto da una bacheca di vetro. Nelle due cappelle laterali sono ospitati da un lato il dipinto dedicato a S. Michele Arcangelo e dall’altro quello della Madonna del Rosario, opera di Girolamo Cialdieri.
Ogni anno, l’otto settembre, in questo santuario viene celebrata la festa della natività della Madonna.
Acqualagna – Abbazia di S. Vincenzo al Furlo*
*Questa meta è indicata anche come luogo econaturalistico
Dedicata alla memoria di San Vincenzo, vescovo di Bevagna, l’abbazia ha origine incerta, alcuni residui di fortificazione farebbero supporre una fondazione risalente al VI secolo, ma altri elementi ne sposterebbero la data intorno al X secolo. Sulle pareti della Chiesa sono ancor oggi visibili affreschi di scuola marchigiana. La posizione adiacente ad uno dei più suggestivi passi appenninici fa dell’abbazia una meta attraente anche per il magnifico paesaggio che la circonda.
A destra della chiesa si sviluppava il monastero, con il chiostro prospiciente la navata destra. Tutto il complesso abbaziale era stato realizzato con pietra corniola proveniente dalle cave locali, mentre per la pavimentazione della chiesa si usarono grandissimi e spessi lastroni di pietra di origine romana e paleocristiana.
La facciata della chiesa è a capanna: al centro si apre il portale con arco a tutto sesto e lunetta traforata, sormontato da un’ampia monofora del XV secolo. Alle pareti si conservano ampie zone affrescate di scuola marchigiana dei secoli XV e XVI. La copertura, scandita da tre costoloni, si presenta per due terzi a volta a crociera, mentre il restante è a capriata. Questa diversità è ben visibile anche dall’esterno, attraverso i due diversi livelli di altezza della copertura.
Il presbiterio è sopraelevato, con al centro una stretta scalinata e ai lati due aperture ad arco a tutto sesto che conducono alla cripta. Quest’ultima – riconducibile al secolo X – è tripartita da sei colonne di diverso diametro, con capitelli a tronco di piramide di varia fattura. Al suo interno si trova l’absidiola appartenuta alla navata laterale destra e ben visibile dall’esterno, posta accanto a quella principale.
La valle dei tufi e il santuario della Madonna delle grotte*
*Questa meta è indicata anche come luogo econaturalistico
l linguaggio locale indica con il termine tufi quelle formazioni marine del Pliocene inferiore caratterizzate da sabbie e arenarie talvolta debolmente cementate fra loro.
Valle dei Tufi
Suggestive nella forma, brillanti nel colore, polverose al tatto, grandi pareti di tufi caratterizzano quell’intera area della Madonna delle Grotte che, fra gli abitati di Mondolfo, San Costanzo e Stacciola è altrimenti nota col suggestivo nome di La Valle dei Tufi. Percorrerla in bici o a cavallo, passeggiarci da soli o con la famiglia o con gli amici senza incontrare speciali difficoltà: queste sono solo alcune delle prerogative che offre La Valle dei Tufi il percorso ecologico culturale a soli quattro chilometri dal mare e facilmente raggiungibile. Vivere La Valle dei Tufi significa immergersi nella tranquillità della verde e rigogliosa campagna marchigiana; incontrare qua e là case coloniche, segno tangibile di quella che fu la “civiltà della mezzadria”, muovendosi tra filari di viti e lussureggianti oliveti e venendo così a contatto con una rigogliosa natura che, favorita dal mite clima di questa valle rivolta a ponente e protetta dai freddi venti marini, offre suggestivi passaggi fra selve e boschi, quale quello di Stacciola. Dall’ampia pineta della Madonna delle Grotte, con la sua felice posizione accanto all’antico e noto santuario mariano che all’intera località dà il nome, l’itinerario attraversa la zona della “Grottaccia”, pescoso lago un tempo rifugio di briganti. Si incontra quindi il minuto abitato di Stacciola Villa, dal 1412 feudo dei Mauruzi da Tolentino, arroccato attorno alla parrocchiale bianca di calcina. Poi, lungo il percorso, ecco le zone panoramiche, come quella da cui, superando la collina di Mondolfo, si sconfina nell’orizzonte sino al mare, fra Marotta, Senigallia e, più a sud, Ancona. Dove per secoli gli abitanti di questi luoghi si rifornirono d’acqua, La Valle dei Tufi offre le sue Fonti: quella piccola di Stacciola e la “Fonte Grande” di Mondolfo, con lavatoi, cannelle e abbeveratoi. Il cammino ne La Valle dei Tufi, permette di incontrare una flora multicolore e una fauna vivace, con lo splendore del gruccione, uccello migratore dal variopinto piumaggio. Il percorso offre anche piacevoli luoghi di sosta attrezzata, per consumare picnic e merende; iniziare l’itinerario è facile: basta recarsi ai parcheggi di scambio presenti, come quello di Mondolfo al santuario della Madonna delle Grotte.
Cagli – Abbazia di S. Pietro di Massa
La Chiesa abbaziale di San Pietro (in carta IGM la Badia), si trova nel piccolo centro abitato di Massa (piccola frazione di Cagli) situata sul versante di Sud-Ovest del Monte Nerone a 510 m di quota.
Entro il nucleo abitato si trovano diverse case restaurate in pietra arenaria, una delle quali del tipo “a torre-colombaia”.
Appena fuori, accanto al cimitero, si trova la Chiesa parrocchiale di S. Pietro, un tempo importante abbazia..
La Chiesa Parrocchiale del piccolo centro di Massa è tutto ciò che rimane dell’antichissima abbazia i cui resti si possono osservare incassati nei paramenti murari. L’edicola del campanile porta incisa la data XXLMDCCCLVI.
L’interno si presenta ad aula unica con basse capriate a vista; l’altare maggiore è in stucco in tipico stile barocco ed è privo di pala. Interessanti sono i due locali, al di là dell’altare maggiore, con volta a crociera e archi di volta in pietra poggianti su bassi pilastri, alcuni con angoli smussati e altri su colonne; nella chiesa possiamo inoltre ammirare la pala seicentesca raffigurante la “Madonna del Rosario e i Santi“.
Cagli – Abbazia di Santa Maria Nuova di Naro
L’abbazia sorge a Cagli, a metà strada tra Acqualagna e Piobbico, presso il fiume Candigliano, nella località circondata da alte colline denominata Abbadia di Naro, su cui domina l’omonimo Castello.
Fondata dai frati benedettini nel secolo XII ed in passato fiorente monastero, oggi rimane soltanto il corpo principale della Chiesa, restaurata, al cui interno si trovano numerose tracce di affreschi sulle pareti, tra cui il frammento risalente al 1300 della “Madonna in trono col Bambino”. La facciata è a capanna con un portale e finestra centrali, mentre il retro è caratterizzato dal campanile a vela e da una monofora romanica nella parete di fondo. Sul lato destro un portico poggia su tre bassi pilastri quadrangolari. Attualmente sono riconoscibili le varie fasi costruttive altomedievali e medievali: incassate nei muri di cortina si vedono ancora le antiche colonne della navata centrale, alcune delle quali si presentano in cotto, altre in conci e tutte con capitelli in pietra, e una parte degli archi, mentre di fronte alla facciata rimangono ancora i resti del pronao. A seguito di rimaneggiamenti l’interno è oggi a navata unica con capriate a vista e l’altare maggiore sostituisce quello originale, che era addossato al muro. Si accedeva al presbiterio, un tempo più alto rispetto a quello attuale, tramite una scalinata sotto la quale è stata rinvenuta una cripta. La presenza delle navate laterali spiega anche l’alto posizionamento delle finestre più antiche.
Fermignano – Abbazia di S. Silvestro in Iscleto
L’abbazia di San Silvestro in Iscleto sorgeva lungo la strada tra Urbania a Fermignano, alla sinistra del fiume Metauro. L’abbazia prende il nome dalla frazione del Comune di Fermignano San Silvestro mentre la denominazione ad Iscleto fa riferimento al querceto in cui il monastero sarebbe stato costruito. La prima notizia documentata fa riferimento ad una bolla di Urbano III risalente al 1185. Qui soggiornò san Pier Damiani nel 1040. Ciò che rimane del complesso abbaziale è la parte rimasta sotto terra, ossia la cripta della chiesa, caratteristico esemplare di arte romanica dei primi decenni del secolo XI. Vi si accede tramite una scalinata che conduce ad un vano rettangolare con volta a crociera, alla destra del quale si apre un ambiente con al centro un pilastro da cui si dipartono costoloni che profilano le crociere ed una bellissima colonna sorreggente una volta a ventaglio.
Sul posto sono stati rinvenuti almeno sedici frammenti di pietra, scolpiti con immagini simboliche (l’angelo; l’agnello crucifero; animali fantastici; elementi vegetali, etc.).
Tali sculture, ascrivibili alla prima metà del XII sec., sono alcuni di matrice lombarda ed emiliana, altri di gusto bizantineggiante, a testimoniare, sul territorio, la coesistenza di tendenze artistiche diverse. Dalla cripta e dai frammenti scultorei si può solo cercare di immaginare la severa composizione e l’articolazione architettonica della chiesa e di ciò che l’attorniava.
Genga – Abbazia di San Vittore delle Chiuse*
*Questo luogo si può abbinare ad una visita alle Grotte di Frasassi
L’abbazia di San Vittore alle Chiuse è un edificio romanico che si trova a San Vittore Terme nel comune di Genga, suggestiva è la sua posizione trovandosi tra il fiume Sentino e le Grotte di Frasassi.
L’interno della chiesa di San Vittore alle Chiuse, interamente costruita in pietra calcarea, presenta una pianta a croce greca con al centro quattro colonne che suddividono la chiesa in nove campate
coperte a volta crociera. Sono presenti cinque absidi, tre sul lato orientale e gli altri due sui restanti lati.
La facciata si presenta con due torri molto differenti tra loro: quella di sinistra è di forma cilindrica mentre quella di destra è un alto torrione quadrangolare.
L’intera struttura, grazie alla presenza delle due torri e del suo aspetto massiccio, assume le sembianze di una fortezza.
Queste caratteristiche architettoniche sono relativamente comuni nelle regioni delle Marche e tali peculiarità le possiamo riscontrare anche in altri splendidi edifici .
Urbino – Ex Monastero di Santa Chiara*
*questo luogo si può abbinare ad una visito ad Urbino
Il Monastero di Santa Chiara è l’antico monastero delle monache clarisse di Urbino. Si tratta di uno dei principali monumenti cittadini ed uno dei massimi esempi di architettura rinascimentale. Attualmente è sede dell’Istituto superiore per le industrie artistiche di Urbino. Fu costruito nel 1420 per ospitare il Conservatorio delle donne vedove; nel 1456 ricevette la regola dell’osservanza di Santa Chiara da Papa Callisto III per intercessione del duca Federico III da Montefeltro. Nel 1457 vi si ritirò in clausura la prima moglie del duca Federico III, Gentile Brancaleoni, e nel 1472 vi fu sepolta la seconda moglie del duca, Battista Sforza. Nel 1482 anche Elisabetta da Montefeltro, una delle figlie del duca Federico III, si ritirò in questo monastero, dopo la morte del marito Roberto Malatesta; dopo alcuni anni divenne suora e con la sua dote avviò la ristrutturazione del monastero, su progetto dell’architetto senese Francesco di Giorgio Martini, rimasto incompiuto per le sfavorevoli contingenze storiche. Successivamente i Della Rovere intervennero sulla chiesa conventuale tra XVI e XVII secolo; dal 1538 divenne il Mausoleo ducale con la sepoltura nella suddetta chiesa del duca Francesco Maria I Della Rovere, della moglie Eleonora Gonzaga, del figlio il cardinale Giulio Della Rovere, della nuora Giulia Varano e della nipote Eleonora o Lavinia Della Rovere. Nel 1864 la struttura fu confiscata dal Comune, che la destinò a Istituto di educazione femminile, destinazione che mantenne fino al 1904 quando vi fu istituito l’ospedale civile. Negli anni settanta l’ospedale venne trasferito in un nuovo fabbricato, nella periferia della città, e così l’ex-monastero divenne sede dell’Istituto superiore per le industrie artistiche.
CORINALDO – SANTA MARIA GORETTI
Santa Maria Goretti
Maria Goretti è venerata come santa e martire dalla Chiesa Cattolica che la canonizza il 24 giugno 1950.
Maria nasce a Corinaldo il 16 ottobre 1890. Viste le condizioni di miseria, nel 1897 la sua famiglia si trasferisce nella campagna romana per cercare lavoro.
I Goretti dividono la casa con i Serenelli, il padre e il figlio Alessandro. Quando Maria ha quasi 10 anni, suo padre muore per via della malaria che infesta quelle zone. Marietta, come veniva chiamata, aiuta sua madre occupandosi dei fratelli e della casa, sostenuta da una grande fede in Dio.
Alessandro, ventenne quando Maria ha 12 anni, tenta alcuni approcci con lei, che Maria rifiuta.
Il 5 luglio 1902, di fronte all’ennesimo rifiuto di Maria che dice “No, no, Dio non vuole, se fai questo vai all’inferno”, Alessandro la colpisce ripetutamente con un punteruolo. Trasportata all’ospedale di Nettuno, Maria muore il giorno seguente, non prima di aver detto a sua mamma “Per amore di Gesù lo perdono, voglio che venga con me in Paradiso”. Alessandro viene arrestato e passa 27 anni in carcere; quando torna libero incontra Mamma Assunta e i due si riconciliano, nel segno del perdono di Marietta. Proprio il perdono del suo assassino, assieme alla strenua difesa della virtù, portano Maria Goretti ad essere proclamata Santa il 24 giugno 1950 in Piazza S. Pietro, alla presenza della mamma. La Santa è conosciuta e venerata oggi in tutto il mondo e moltissime sono le parrocchie a lei intitolate.
I luoghi di Maria Goretti a Corinaldo
La casa natale
Ad un chilometro e mezzo dal centro storico, in contrada “Pregiagna”, è ubicata la casa natale di Santa Maria Goretti, facilmente raggiungibile anche con il pullman. La piccola abitazione contadina, strutturata su due piani, conserva al piano terra un ambiente con elementi della primitiva stalla, mentre dove era localizzata la cantina è ora presente una piccola cappella dedicata a Santa Maria Goretti. Al piano superiore si trova la sala da pranzo, con al centro il camino e altri due ambienti. A sinistra, la camera di Luigi Goretti e Assunta Carlini: è qui che il 16 ottobre 1890 nacque “Marietta”, come usavano chiamarla in famiglia. In questa stanza sono conservati mobili originali della famiglia Goretti, tra cui il letto ed il quadro a capoletto donato da Mamma Assunta.
Il Santuario diocesano di Santa Maria Goretti
Il Santuario Diocesano di Santa Maria Goretti, situato alla sommità del centro storico è facilmente individuabile per lo svettare del campanile della chiesa di Sant’Agostino sopra i tetti di Corinaldo.
A sinistra dell’ingresso sono presenti le spoglie mortali di Mamma Assunta deceduta a Corinaldo nel 1954; mentre a destra quelle di Alessandro Serenelli. Nell’altare centrale in marmo bianco di Carrara, vicino ad una scultura lignea di Santa Maria Goretti è posizionata un’urna in argento contenente l’osso del braccio della Santa, braccio con il quale la Martire tentò di difendersi dal suo aggressore, Alessandro Serenelli.
Il fonte battesimale
A destra dell’ingresso, nella chiesa parrocchiale di San Francesco, è presente un piccolo monumento in marmo bianco di Carrara dedicato a Santa Maria Goretti e di fronte al monumento il busto di Papa Pio XII, il pontefice che la beatificò il 27 aprile 1947 e la santificò poi il 24 giugno 1950. Superata la porta, si accede al battistero dove a destra, sotto una vetrata rotonda, è posto il fonte battesimale in cui la Santa fu battezzata il 17 ottobre 1890.
Era la chiesa più vicina a casa Goretti e qui la bambina si recava a pregare, soprattutto nel mese di maggio, dedicato alla Madonna; nel primo altare a sinistra un pittore corinaldese, Mirco Manoni, ha immortalato il devozionale momento.